La sottile linea azzurra

Funziona non aveva mai provato tanto piacere nel disegnare. Passava da una matita all’altra, e ad ogni cambiamento un nuovo cerchio colorato prendeva forma sul foglio a quadretti. Un’altra matita, un altro cerchio: sarebbe stato più veloce terminare tutti quelli di una tinta prima di passare a quella successiva, ma nella realtà quei cerchi non erano apparsi ordinati per colore, e dunque Funziona vedeva in quell’inefficienza una cortesia nei confronti della storia.

Dall'altra parte della cattedra l'insegnante era lieta di vedere i suoi studenti così impegnati, e grata del silenzio nella classe.

«Immaginate di poter volare: disegnate quello che fareste» aveva detto loro, e ora era curiosa di vedere che cosa avrebbero prodotto. Già pregustava la serata sul divano, a valutare i loro lavori e tentare di riconoscerne l’autore: alle volte era il tratto, altre il soggetto o lo stile, ma conosceva così bene i suoi studenti che rare erano le volte in cui non riusciva ad attribuire l’opera al viso, al carattere o all’indole di uno di loro. Che fosse un enigma semplice, come riconoscere i disegni della ragazza dai capelli rossi, o uno molto più complesso, era una gioia serale a cui non vedeva l’ora di dedicarsi.

Colorato l’ultimo cerchio Funziona ripose le matite nella scatola: l’opera era compiuta. Era consapevole delle imprecisioni – la casa, disegnata con un triangolo appoggiato sopra ad un quadrato, non rispecchiava l’architettura della sua abitazione, – ma erano i cerchi colorati, che riempivano la parte alta del foglio, ciò che importava. Chiuse il quaderno e lo consegnò.

Quella sera, seduta sul divano, l’insegnante si dedicò ai disegni. Il primo lo attribuì immediatamente a Notarious – chi altro avrebbe avuto la premura di indossare un paracadute durante il volo – il secondo alla studentessa dai capelli rossi – facilmente identificata nonostante il mantello e la mascherina da supereroe. I motivi più ricorrenti erano le case stilizzate, gli alberi verdissimi nonostante fosse pieno autunno e in cima al foglio la striscia del cielo, un prato ribaltato e azzurro. Solo un disegno mancava di quella banda blu, al suo posto c’era un insieme di pallini colorati.

«Quelli non sono il cielo» le spiegò Funziona l’indomani. «Sono palloncini, e sono nel cielo.»

E così l’insegnante venne a conoscenza del “deposito di felicità”, costruito da milioni di bambini che per disattenzione, eccesso di entusiasmo o per un improvviso prurito al naso avevano allentato la presa e avevano guardato salire, sempre più in alto, i loro palloncini, fino a perderli di vista.

«Pensi siano tutti lassù?» gli chiese.

«Ha mai piovuto plastica colorata?» rispose Funziona.

Alla luce di quella nuova interpretazione il disegno di Funziona appariva ora perfettamente logico: si era rappresentato mentre, in sella ad un aeroplanino di carta, andava a recuperarli.

«E cosa farai una volta che li avrai recuperati?»

«Vorrei restituirli ai proprietari… Anche se…»

La sua preoccupazione nasceva dal fatto che nel frattempo quei bambini erano diventati adulti, e un adulto potrebbe sospettare di un bambino che, dal nulla, si presenta porgendogli un palloncino: potrebbe chiedersi cosa voglia in cambio, o peggio considerarlo un diversivo per permettere ad un complice di sfilargli il portafoglio.

«Quando le intenzioni sono pure, la diffidenza evapora velocemente» lo incoraggiò l’insegnante.

Funziona annuì, e lì decise che davanti alla reazione sospettosa degli adulti sarebbe rimasto in silenzio, con il braccio teso per porgere il palloncino: lentamente i ricordi sarebbero riemersi e in quel sottile involucro di plastica avrebbero riconosciuto il pezzetto di cielo da cui erano stato separati. E, in quel momento, avrebbero sorriso.

«Ogni consegna renderà felice una persona» disse Funziona.

«Mi sembra un’ottima idea» concordò lei. «Un palloncino alla volta farai felice il mondo intero.»